Diffamazione su Facebook

A causa dell’elevato numero di messaggi offensivi diffusi attraverso i social network, la diffamazione su Facebook è diventata un tema molto dibattuto in ambito giurisprudenziale. Poiché gli strumenti per comunicare sono diversi (bacheca pubblica, gruppi privati, Messneger, età) si è reso necessario comprendere quando una comunicazione privata possa configurarsi come diffamazione ai sensi dell’art. 595 c.p.. Reato che punisce chi offende la reputazione altrui attraverso la comunicazione a più persone.

Diffamazione su Facebook: messaggi privati

Un’importante sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Sentenza 4 marzo 2024) ha escluso la configurabilità del reato di diffamazione in un caso in cui messaggi privati diffamatori erano stati inviati tramite Facebook. Nel caso in esame, una soggetto aveva inviato dei messaggi a due amici del suo ex partner, con l’intenzione di isolarlo e danneggiarne la reputazione.

Già la Corte d’Appello di Milano aveva ribaltato la precedente decisione del Tribunale, ritenendo che i messaggi fossero stati inviati in modo individuale e riservato, senza soddisfare il requisito della divulgazione a più destinatari. La Cassazione, sposando l’interpretazione del giudice dell’impugnazione, ha quindi affermato che, per configurare il reato di diffamazione, è necessario che il contenuto diffamatorio sia stato comunicato a più persone, elemento che mancava in questo caso specifico.

Diffamazione su Facebook: quando è reato

Per comprendere meglio la decisione della Corte, è utile ripercorrere i requisiti oggettivi e soggettivi del reato di diffamazione. Ai sensi dell’art. 595 c.p., la diffamazione si configura quando un soggetto offende l’altrui reputazione comunicando con più persone. Gli elementi essenziali di questo reato comprendono:

  1. Assenza del soggetto leso: La diffamazione avviene in assenza della persona offesa, che non può difendersi dalle affermazioni offensive.
  2. Comunicazione con più persone: La comunicazione deve raggiungere almeno due persone, anche se non contemporaneamente.
  3. Offesa alla reputazione: L’offesa deve riguardare la reputazione del soggetto, cioè l’opinione sociale della sua onorabilità.

Dal punto di vista soggettivo, è sufficiente il dolo generico, cioè la consapevolezza di comunicare un messaggio offensivo a più persone. Non è richiesto il dolo specifico, cioè l’intenzione di causare danni alla reputazione. È sufficiente che l’agente accetti il rischio che la sua condotta possa ledere la reputazione altrui.

Pertanto l’utilizzo di epiteti o espressioni potenzialmente offensive in un dato ambiente sociale, in base al significato oggettivo che viene loro attribuito da quella comunità, potrebbe essere sufficiente ad integrare il reato di diffamazione (cd: dolo eventuale).

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Diffamazione su Messenger

La sentenza della Corte di Cassazione ha sottolineato l’importanza della distinzione tra comunicazioni pubbliche e private, specialmente nel contesto dei social media. Sebbene Facebook sia una piattaforma potenzialmente pubblica, l’invio di messaggi privati, attraverso Messenger, non soddisfa automaticamente il requisito della comunicazione a più persone, a meno che non vi sia una chiara volontà di diffondere il contenuto a un pubblico più ampio.

La Corte ha stabilito che non è possibile presumere la volontà di diffusione solo dalle caratteristiche del mezzo di comunicazione. La potenziale capacità di una piattaforma come Facebook di raggiungere un vasto pubblico non implica automaticamente la configurabilità della diffamazione, se i messaggi sono inviati individualmente e riservatamente.

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Diffamazione su Facebook: intenzione dell’utente

Questa decisione della Corte di Cassazione è fondamentale per delineare i confini della diffamazione nell’era digitale. Sebbene le nuove tecnologie facilitino la comunicazione, il diritto deve adattarsi alle modalità di interazione tipiche del mondo virtuale. La sentenza sottolinea che la configurabilità del reato di diffamazione non dipende solo dal mezzo utilizzato, ma anche dalle intenzioni e dalle modalità con cui il messaggio è stato trasmesso.

In conclusione, nel contesto dei social media, per configurare il reato di diffamazione, è necessario dimostrare la volontà dell’agente di diffondere il messaggio a più persone, accettando il rischio di una sua diffusione oltre i destinatari originari. Il semplice utilizzo di una piattaforma come Facebook non implica automaticamente tale volontà, e ciò deve essere accertato caso per caso dai giudici di merito.

Ciò non toglie che la Corte di Cassazione (n. 11271/2020) ha più volte stabilito che si configura una comunicazione con più individui anche allorquando il soggetto agente ponga in essere la propria condotta divulgativa in modo del tutto riservato nei confronti di un unico destinatario, ma con l’intento di diffondere il contenuto offensivo proprio attraverso quell’unico e specifico destinatario.

Dall’analisi della giurisprudenza citata emerge quindi come non sia possibile presumere la volontà di diffusione dell’offesa dalle caratteristiche dello strumento utilizzato. È invece necessario studiare il caso specifico e verificare la sussistenza di tutti gli elementi del reato nella concreta condotta attuata.